Furia della figura
«A tutt’oggi, non ho trovato migliore definizione dell’arte di questa, “l’arte è l’uomo aggiunto alla natura” – natura, realtà, verità, ma col significato, il concetto, il carattere che l’artista sa trarne, al quale dà espressione, qu’il dégage, che libera e interpreta». Quest’assunto di Van Gogh, affidato a una lettera al fratello, è forse il manifesto di stile più vicino all’estetica di Salvatore Difranco o, almeno, all’estetica di Salvatore come si configura in questi disegni. Disegni che costituiscono la quasi totalità della sua produzione, essendo la presente la sua prima personale, ma nei quali è già perfettamente riconoscibile un processo, un percorso evolutivo. Proprio come Van Gogh, egli sa bene che per sposare la natura è necessario liberarsi da ogni tipo di “astrazione”, da intendersi tanto nel senso della perfezione tecnica, che rischia di sfociare in accademica ricercatezza, quanto in quello di un tratto puramente istintuale: senza l’uomo, cioè senza una forma, un contesto, una precisa tradizione, la natura bruta non è nulla. A chi dunque venga voglia di rappresentare, poniamo, un campo di grano, non basterà guardarlo con gli occhi del corpo; dovrà sì – cito ancora Van Gogh – lasciarsi fagocitare dalla natura, ma servendosi delle proprie capacità (della mente e del cuore, della fantasia e della memoria visiva) per esprimere attraverso l’opera sentimenti intellegibili a livello universale. Si spiega così il transito dal segno iperrealistico, sebbene decisamente interpretativo, dei primi ritratti, a quello forte e vibrante degli ultimi paesaggi, la cui apparenza impetuosa appare comunque sorretta, come in certe carte di Alessandro Papetti, da una composizione salda. Nonostante in questi lavori il tema prediletto dall’artista sia la mite campagna iblea, la sua potente immaginazione riesce a trasformare i luoghi di sempre nello scenario di un evento cosmico: un campo di grano diventa una pista, una casa rurale un fortilizio, una prosaica distesa di serre una foresta di statue. Il cielo è come percorso da una schiera di comete che lo anima e rischiara, la terra da un incendio che la scuote e la consuma. In opere come Intrusione e Mescolanza lo sguardo e il mondo giungono a fondersi in una sintesi dolente, che è ora meditazione sulla fugacità dell’essere, richiamata dalla scomposizione delle immagini dovuta al movimento di chi osserva, ora contemplazione dei contorti sentieri dell’uomo nel campo aperto della storia. I volti, poi, o si scarnificano all’osso, o si deformano in senso espressionistico, o si replicano in multipli appena variati che ci fanno dubitare della loro identità. Coerentemente, anche nelle composizioni più statiche, e perciò da leggersi di fila, Salvatore sembra attenersi a un famoso precetto di Michelangelo riportato dal Lomazzo: «la maggior grazia e leggiadria che possa avere una figura è che mostri di moversi, il che chiamano i pittori furia de la figura […] e per rappresentare questo moto non vi è forma più accomodata, che quella de la fiamma del foco […] sì che, quando la figura avrà questa forma, sarà bellissima». Una fiamma, certo, lontana dalla tormentata religiosità del Buonarroti, ma che, nella sua effervescente concentrazione segnica, riflette il nostro tempo ben più dello «artificioso riciclaggio del bello e del gradevole per lo più operato dalla grafica dei mass-media (collegata all’arte pop e op), ormai parte integrante dei nostri circuiti vitali» (Pignati).