nero luce” di Salvatore Difranco

Si parla spesso del nero come un “colore non colore” associato al concetto di oscurità e contrapposto al bianco, simbolo di splendore. Spesso la vita stessa è una sintesi di due opposti in cui la natura si manifesta con le sue infinite sfumature, ognuna delle quali contiene una parte di luce e di tenebra.

Il ventiquattrenne Salvatore Difranco, siciliano di Comiso (Rg), presenta in occasione della mostra “nero luce” alla galleria Koinè di Scicli una serie di disegni a matita su carta, taluni dal tratto graffiante, deciso e libero, altri più studiato, ma pur sempre ben riconoscibile. Con l’uso della matita, il lavoro acquisisce tonalità corvine senza con ciò apparire cupo. Anzi, la grande capacità dell’artista sta proprio nel rendere luminoso ciò che per antonomasia è la negazione della luce, il nero appunto.

Ma è bene dire che in natura il nero totale non esiste. Persino in un ambiente buio si trova sempre un po’ di luce. I nostri occhi non riescono a percepirla, ma questo non vuol dire che non c’è.

Ebbene, Difranco riesce con mirabile maestria a diffondere luminosità nei suoi disegni monocromi. Intesse sapientemente la trama di linee con il biancore del foglio “lisciato” da cancellature che fungono da punti luce in un’intricata distesa di segni neri, talvolta così marcati da evocare per analogia le incisioni su lastra.

Linee frenetiche e taglienti delineano figure umane e paesaggi. Corpi resi con tratti che solcano il foglio in maniera fluente e turbinosa. Volti, talvolta scarni e privi d’identità, atemporali e quasi eterei, paiono svanire nello spazio. A quest’ultimi si alternano ritratti dalle linee più distese, “tarate”, in cui l’adesione al soggetto è scrupolosa, in alcuni casi sorprendente, segno tangibile di un percorso evolutivo e di ricerca in pieno svolgimento.

Se in taluni ritratti appare chiaro lo spunto fotografico, lo stesso non può dirsi per i suoi paesaggi in cui raggiunge picchi di assoluta autonomia costruttivo-sintattica. Agli scenari campestri alterna visuali architettoniche. Se nel primo caso potrebbero essere ravveduti l’influenza e il richiamo esercitati dal proprio luogo d’origine, nel secondo vi si potrebbe scorgere la grande voglia di evasione da una piccola realtà come quella iblea, a favore dell’ambiente cosmopolita di una grande metropoli, figurata dalle baracche ai margini di periferia e ancor più dai palazzoni così tanto simili ai parallelepipedi da lui disegnati. In entrambi i casi, si tratta di rappresentazioni visionarie di luoghi privi del “genius loci”, senza identità. E l’impossibilità di poterli collocare determina una profonda sensazione di smarrimento.

Difranco cattura dettagli e li fissa sul foglio. Da lì in poi sarà la sua mente a sviluppare ecosistemi onirici. Il suo desiderio di “consistenza” è tale che le forme perdono la leggerezza dell'immaginario e si fanno corpose.

Non ci sono effetti atmosferici e le uniche variazioni cromatiche sono quelle derivate dal naturale impiego chiaroscurale della matita. In questo modo la monocromia tende a sublimare la materia e la manualità, e di quest’ultima Difranco ne è ricco.