Quando si pensa al ritratto, entrano in gioco elementi basilari del senso comune intorno a cosa sia o debba essere considerato pittura o scultura: si potrebbe essere restii a ammetterlo, ma è la somiglianza fra modello e ritratto ciò che cerchiamo, a fare da banco di prova dell’arte. Al ritratto come tautologia visiva si può opporre il ritratto come analogia, consonanza o rima: come dire – se i paragoni non si spiegano da soli -, in poesia, lo scarto che permette una relazione che attiva potenziali di significato più ampi di quanto gli elementi isolati non autorizzerebbero, se restassero sottotraccia e fossero accostati al di fuori della forma che li riconfigura. È quello che fa Salvatore Difranco, mettere i volti per iscritto, matita su carta, la traslitterazione fisiognomica di una supposta interiorità (nel senso che nemmeno a se stessa è del tutto chiara) matita su carta. La sua è una “calligrafia” nitida, fluida, ma puntuale: se scorre con diversa velocità e incidenza, spesso, il rilievo del contorno è appena accennato; il volto è privo di densità e il segno sembra suggerirlo come se la definizione della fisionomia traesse consistenza dal tracciarne i limiti esterni. Lo spessore del volto, in senso fisico e psicologico, è dato, piuttosto dalle ombre, organo ulteriore o elemento che lo connota, laddove S.D. attenua una parte del viso rispetto al resto: un occhio, il più delle volte o la bocca o entrambi, rimarcati con maggiore incisività e precisione. Come se il dettaglio fosse tumefatto nel punto colpito dello sguardo altrui; o quella evidenziata fosse la parte ancora reattiva di un volto che affiora o si cancella con facilità dalla memoria e il volto andasse depurato da ogni postilla che vi deposita lo sguardo che lo assembla un pezzo alla volta, mentre non riesce a coagulare del tutto attorno a quel particolare decisivo. L’identità come un miraggio di cui rimane qualche barlume nel modo in cui un dettaglio si sporge o si ritrae, fili di capelli cadono sulla fronte o sulle tempie e bastano a rilevare un contorno più sfuggente – il segno lasciato dall’immagine che si perde: ragion per cui, l’occhio sbiadito è chiuso o è cancellato senza che ne soffra la plausibilità fisiognomica.

Non a caso lo stesso discorso può ripetersi per i paesaggi di S.D., se così possiamo definirli intendo il termine nel senso basilare di spazio dove natura e presenza di opere umane si mescolano in minore o maggiore proporzione, Sono luoghi che non si lasciano collocare in un contesto ambientale o storico, immersi in una penombra allucinata o nell’oscurità della notte, ma, anzitutto, notturni essi stessi: altrettanto enigmatici dei ritratti, immagini di un carattere al di fuori di ogni presupposto realistico, sono luoghi senza un orizzonte che gli dia consistenza di luogo reale. Paesaggi di baracche che richiamano sobborghi ai margini di metropoli o di lande desolate; distese di coperture a protezione dei blocchi di una cava; vagoni su una spianata di sterrato; quella che sembrava una piazzola di sosta.

Senza identità riconoscibile, per sapere che cosa siano e dove siamo: ma con un “retroterra” della cui vastità non saremmo più sicuri di questi luoghi essi stessi disorientati: che hanno, pertanto, un che di concentrazionario, di tetramente provvisorio.